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THE HATEFUL EIGHT
(THE HATEFUL EIGHT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 febbraio 2016
 
di Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Tim Roth, Walton Goggins, Demian Bichir, Bruce Dern (Stati Uniti, 2015)
 
Di fronte alle controversie critiche che accompagnano l'uscita del suo ultimo film, perlomeno su una cosa bisognerebbe accordarsi. Da sempre, ma in particolare dagli ultimi suoi BASTARDI SENZA GLORIA (2009) e DJANGO UNCHAINED (2012) la ben nota predilezione di Quentin Tarantino per i dialoghi sembra dilagare. Tanto da fargli dire (su Positif dello scorso mese): Quando avrò terminato con la regia, potrei concentrarmi sulla scrittura, diventare uomo di lettere, scrivere dei romanzi. Sarebbe un modo assai piacevole di vivere i miei ultimi anni, piuttosto di starmene seduto con una squadra che passa la sua giornata a scegliere delle scenografie.

Tre ore, suddiviso in 6 capitoli, concepito come esperienza teatrale, The Hateful Height riflette esattamente quello stato d'animo. Come spezzato in due: con una prima parte che deve quasi tutto alla parola, alla sua cadenza, al suo potere di sublimazione nei confronti dell'incombente panorama dello Wyoming che incornicia questa specie di western. Lento, come mai lo è stato il cinema di Tarantino, nell'eco di un redivivo Ennio Morricone. Una diligenza che sbuca dal nulla innevato, un inizio che fa dapprima pensare a una continuazione di DJANGO; ma che diverrà ben presto il ricettacolo balordi allusivi ((siamo all'indomani della Guerra di Secessione): l'ex schiavo nero diventato cacciatore di taglie (un Samuel L.Jackson sovrano), un presunto futuro sceriffo che non sapremo mai quanto millantatore, una supposta capobanda (l'ammaccata Jennifer Jason Leigh) condotta al patibolo da un improbabile giustiziere. Immobilizzati da una terribile tempesta, questi e altri compari finiranno nella taverna che funge da stazione di posta per cavalli.

E' la seconda parte, che vede il Kammerspiel degli esterni recludersi in uno spazio claustrofobico; e la parola, che aveva il compito di condurre l'azione, concedere maggiormente all'immagine. La metafora si fa allora più esplicita. Sfruttato grazie all'utilizzo del 70mm, lo spazio della taverna diventa la scacchiera fisica di una riflessione che si vuole più profonda di quel manipolo di otto hateful abbruttiti che la abita. Un'allegoria sempre meno festosa non solo sull'ambiguità e sulla cupidigia umana (apparentemente, già allora fonte di ogni male), leitmotiv nella prima parte. Ma sulla Storia di un'America dai conflitti sociali e razziali, passati e presenti, che tragicamente fatica a rimarginare le proprie ferite.

Nel contempo, la prolungata - qualcuno dirà esasperata e autoreferenziale - ma in definitiva sorprendente e inedita teatralità della visione cede il passo alla nota trasgressione trash-pulp dell'autore, agli schizzi viscerali d'emoglobina a questo punto più horror che western. Difficile considerarli proficui. Tarantiniani, di certo, più vicini al compiacimento che alla riflessione filosofica e politica che li precede. Ma relativamente ludici, coerenti e sorprendenti ai fini dell'invenzione.


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